Purché se ne parli … BENE

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Purché se ne parli … BENE



In alcuni dei nostri articoli precedenti abbiamo già evidenziato quanto nel passato come nell’attualità un ottimo passaparola sia sempre la via principale per promuoversi.

Ormai il mondo della comunicazione è regolato sempre di più sulla “tendenza”: tutti vogliono sapere quale sia il video del momento, maggiormente condiviso, apprezzato, così come anche criticato od osteggiato. Nel mondo in cui tutti virtualmente possono godersi il loro quarto d’ora di popolarità, nessuno vuole restare in panchina e quindi si cerca di restare sempre al passo con ciò che fa parlare di sé: sui social, tutte le tendenze si diffondono nel giro di pochi giorni se non di ore.

Ovviamente anche il mondo dell’advertising si è adattato a queste dinamiche: una giusta pubblicità virale, che faccia parlare di sé a lungo, ha sempre il merito di far conoscere il proprio prodotto ad una platea sempre più vasta.

Tuttavia ogni medaglia ha il suo rovescio: “Purché se ne parli …” è stato spesso letto da chi non aveva grandi qualità artistiche o professionali come un via libera per il “… se ne parli anche male”.

Inutile negarlo: le polemiche, le discussioni ed i personaggi conflittuali fanno audience e tendenza dai tempi delle immancabili liti televisive dei talk show, di cui ci sarebbero fin troppi esempi da riportare. Tuttavia, di recente questa tattica, fin troppo abusata, ha dato vita a dei veri e propri boomerang che si sono rivoltati contro gli stessi artefici.

La parabola mediatica di Andrew Tate si dimostra come un esempio perfetto per capire come la popolarità a tutti i costi possa ritorcersi anche contro chi ne era stato prima beneficiato.

Tate è il vero prototipo di quanto i social (e soprattutto i video postati su di essi) possano rivelarsi una vera agenzia pubblicitaria gratuita: basti dire che Tate è stato quattro volte campione del mondo di Kickboxing, ma prima che riuscisse a scatenare un vero polverone mediatico, praticamente nessuno conosceva il suo nome e neppure che faccia avesse.

Invece ad oggi Tate conta, nonostante l’oscuramento (di cui parleremo poi) ben quarantaquattro milioni e quattrocentomila risultati su Google, quando i campioni di MMA Robert Whittaker ed Israel Adesanya si fermano rispettivamente a diciotto ed a quasi nove milioni di risultati.

Cosa ha portato un ex fighter a diventare molto più famoso di atleti ancora in carica? I social.

Andrew Tate ha deciso di vendere la sua immagine attraverso ogni canale a disposizione: Instagram, Facebook, Youtube, TikTok nella maniera più facile possibile per far parlare di sé.

Ossia presentarsi come un personaggio scomodo e sopra le righe, esagerato quanto inimitabile, impossibile da ignorare. La figura di questo influencer è molto chiara e promossa quasi esclusivamente attraverso i video: ricchissimo (con modalità molto chiacchierate), ostenta una vita fatta da lusso sfrenato (un tripudio di yatch, Bugatti Chiron, Ferrari e Lamborghini come se piovesse) ma soprattutto d’idee sferzanti ed arroganti su ogni argomento possibile e immaginabile.

In una società dominata dal politicamente corretto, Tate ha volutamente mostrato un’immagine di sé sopra le righe: sempre provocatorio in ogni occasione, esternando idee maschiliste, machiste e contro il sistema costituito, ha attirato tutti i riflettori su di sé, diventando uno dei personaggi più condivisi e celebri sulle piattaforme. Non sarebbe neppure necessario specificare che il suo successo più grande sia stato raggiunto su TikTok, dove i video con la sua presenza hanno raggiunto i tredici miliardi di visualizzazioni complessive.

Ormai diventato il Top G (il super vincente), Tate ha sfruttato la sua fama per vendere merchandising ed offrire servizi sul suo portale di apprendimento professionale, con un successo che non sembrava minimamente prossimo a nessun calo verticale. Tuttavia, come abbiamo già anticipato, il “purché se ne parli”, se negativo, è davvero una spada di Damocle: tanta visibilità controversa ha portato una valanga di critiche e molti influencer gli hanno dichiarato guerra, inondando la rete di contenuti controil Top G. Di fronte ad una tale ondata di segnalazioni, tutti i social su cui aveva degli account hanno preso la decisione di bandirlo con effetto immediato, escludendolo quasi completamente da tutto il mondo della condivisone. Chiaramente Tate non si è arreso e prosegue il suo percorso su social esterni al gruppo Meta e Google, tuttavia è innegabile che la perdita ricevuta con l’azzeramento improvviso di tutto il suo seguito virtuale guadagnatosi fino a quel punto sia stata significativa.

Anche se un giorno venisse completamente reintegrato, in un mondo così dinamico ed affollato come quello delle piattaforme di condivisione non è difficile che una nuova figura prenda spunto dalla sua tattica e si imponga come nuovo leader “dissidente”, facendogli perdere per sempre il proprio ruolo.

Cosa ci insegna quindi la vicenda mediatica di Andrew Tate?

Sicuramente che il passaparola e la condivisione nella nostra epoca valgono come o di più della pubblicità tradizionale, tuttavia la fama negativa può tradursi in una serie di voci contrarie in grado di condurre persino all’eliminazione mediatica. Concludendo, la vera grandissima lezione ricavata dall’epopea di quest’uomo, che in poco più di un anno è riuscito a diventare famosissimo praticamente dal nulla, è che i video sono la miglior forma d’advertising possibile: lo stesso Tate ha imposto la sua figura attraverso di essi, come dimostra l’exploit su TikTok, utilizzando gli altri media come mero contorno.

Quindi, se volete far parlare di voi, una cosa è certa: i video sono la soluzione.

Tuttavia, se desiderate che la vostra fama non si trasformi presto o tardi in infamia, non potete giocare la carta dello scandalo ma serve invece, oltre ad un prodotto valido da reclamizzare, anche una struttura professionale seria che riesca a dare un contenuto di spessore … e per questo Playstop Video può fare brillantemente al caso vostro.


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